domenica 21 dicembre 2014

Le Recensioni di Enzo Riccò




La prima neve     di    Andrea Segre

 

Dopo la nebbiosa e nostalgica Chioggia del film “Io sono Li”, il regista Andea Segre ci presenta, con mano delicata, il piccolo mondo di una comunità montana che ha la schiettezza e la ruvidità delle cose essenziali. La pellicola, dal titolo: “La prima neve”, racconta passioni e sentimenti sepolti dal pudore di persone dalle poche parole e dagli sguardi intensi. Due storie parallele di una sofferenza con non raggiunge l’elaborazione perché non sa emergere dal cuore per arrivare alle labbra.

Dani è un emigrato africano salpato dalla Libia  sui tragici  barconi della disperazione; dopo un travagliato tragitto verso il nostro paese, perde la moglie che muore partorendo. Ora si ritrova ospitato in una casa di accoglienza tra i freddi, e per lui inusuali monti trentini, con una figlia che non accetta perché evoca lo sguardo della madre. Michele è un ragazzo intraprendente e sveglio, vivace quanto ribelle;  ha ancora negli occhi la morte del padre, guida alpina travolto da una frana.

Come in un dipinto si  stendono sulla pellicola le tinte calde dell’autunno: i rossi, i gialli, il verde bruno degli abeti; il regista ci offre paesaggi di un incanto che ammutolisce.

Tutto rimanda al suo precedente lungometraggio: la poesia di una natura quasi inanimata, avvolta nella nebbia e il difficile tema dell’accoglienza di chi è diverso per cultura e per colore della pelle. Questa accettazione, in entrambi i casi, si fa vicinanza tra l’imbarazzo burbero delle parole e i leggeri segni dell’empatia e dell’ascolto.  Come a dire che esiste, nella stessa essenza umana, una capacità comunicativa che supera la diversità culturale e va oltre i limiti delle lingue differenti e incomprese. E’ un’espressione controcorrente rispetto al pensiero rassegnato dell’incomunicabilità. Una fiducia estrema nell’uomo, nella sua capacità di capirsi oltre le parole che portano spesso il limite dell’ambiguità. I gesti, i silenzi, i tremori di una titubante presenza diventano così veicolo di sentimenti covati e non altrimenti espressi.

“Le cose che hanno lo stesso odore devono stare vicine”. E’ il messaggio che il brusco nonno di Michele affida all’africano, mostrandogli la sintonia tra il miele prodotto e l’aroma del legno resinoso di montagna. E’ un accostarsi all’altro quasi percettivo che passa attraverso le radici profonde dell’impronta creaturale umana.

Il filo rosso della paternità accompagna l’intera vicenda narrata da Segre che, con tono sussurrato, si accosta ai personaggi in punta di piedi per osservare da vicino i profondi messaggi del “non detto”. Finalmente un film sulla funzione paterna in una società che ne manifesta chiaramente i segni di un’evidente crisi.

Una paternità persa e ricercata nella collera  del piccolo Michele, smarrita e ritrovata nella rabbia silenziosa di Dani, che intaglia nel coccio di un abete il volto della moglie. Sarà il percorso iniziatico verso la riscoperta della indispensabile funzione paterna.

Un abbraccio timido, tra i venti nevosi delle cime trentine, esprime questo rasserenante ritrovamento. Là dove la montagna aveva cancellato un padre, un padre ritrova il suo equilibrio in una sintonia che non è né gelosa, né possessiva, ma come nella felicità più sana si esprime nella condivisione della bellezza.

 

Enzo Riccò

 


Se chiudo gli occhi non sono più qui   di   Vittorio Moroni

 

Kiko tiene nel pugno una piccola pietra scura, deforme e rugosa, resto di una meteorite: è per lui più di un amuleto. E’ come un viatico esistenziale che gli ha lasciato il padre, morto tragicamente sulla strada, travolto da un colpevole senza nome.

Il ragazzo sogna universi paralleli e guarda il cielo notturno nel desiderio di colmare un buco di sofferenza che non si chiude mai, anche quando, con una pinza, si contorce le carni del braccio fino al limite della sopportazione.

Il film di Vittorio Moroni, “Se chiudo gli occhi non sono più qui”, presenta la figura di un giovane inquieto, figlio di una filippina e di un italiano, che deve gestire una problematica situazione emotiva.

La madre, sommersa di debiti contratti dal marito,  convive con un altro uomo, aggressivo e irascibile, che fa del lavoro la sua unica ragione di vita. Kiko deve conciliare, senza riuscirci scuola e lavoro. Dopo la tragica vicenda dell’incidente è sempre tormentato da un senso di vuoto. Fugge da un mondo che non capisce. Si rifugia in un arrugginito autobus che ha trasformato in tana, circondato da chincaglierie, oggetti e foto ingiallite del padre morto che gli sorride.

Nel suo nascondiglio tutto è fermo, secondo una staticità asfissiante che reprime ogni  slancio di rinnovante cambiamento. La rabbia cova tra le lamiere di un mezzo che, per antitesi rispetto al suo uso, non trasporta più nessuno.  Anche l’iguana, l’unico amico silenzioso, si muove con una lentezza che ci riporta ai tempi delle antiche ere geologiche.

Il riferimento alle stelle è frequente in modo esplicito nel film: nomi di astri, distanza tra corpi celesti.  E il bus, divorato da sterpaglie, è come una stella fissa: una nostalgica inquietudine attorno alla quale si espande e ruota l’universo di una vita segnata da destini che sembrano inevitabili e senza speranza. I debiti lasciati in eredità dal padre, il duro lavoro nel cantiere che non gli lascia tempo allo studio, una scuola distratta e inerme di fronte ad un ragazzo che si addormenta  bocconi sul banco, un nuovo padre padrone che lo vuole iniziare alla fatica del mondo adulto tra rimproveri, botte ed obblighi di manovalanza.

Questo sistema planetario relazionale - emotivo, senza orizzonte,  viene però destabilizzato da una enigmatica figura: Ettore. L’anziano insegnante dice di essere stato amico del padre e vuole accendere nell’adolescente una nuova passione per la vita, attraverso il gusto di un sapere esistenziale. Gli fa assaporare la saggezza della  domanda, quella che motiva con dirompente forza la ricerca interiore.

Le domande sono così scritte, con pennarello indelebile, su sassi di fiume che sembrano formare il fondamento di un rinnovato percorso.

Ma quando tutto assume un indirizzo positivo, una nuova conoscenza fa esplodere, come un big bang,  ogni equilibrio. Il portatore del bene è fonte dell’antico male e chi sembrava amico diventa il peggiore dei nemici da odiare. L’origine della più radicale sofferenza.

Con il cuore rivolto alle stelle, il giovane arriva ad una triste conclusione: “Quando una grande stella muore diventa un buco nero: tutto ingoia e nulla torna più indietro”.

“Se chiudo gli occhi non sono più qui”, tra le dolorose, quanto possibili vicende che illustra, è un film portatore di grandi segni di speranza, differentemente da quanto possa apparire.

La speranza di un sapere che diventa medicina sanante quando entra a contatto con la vita. Un sapere che non è fatto di risposte nozionistiche, ma di interrogativi profondi e motivanti,  che ci spingono oltre l’immobilismo di un destino precostituito e demoralizzante.

Ma c’è di più.

Tra le pieghe della narrazione emergono altri due volti della speranza che hanno l’aroma della proposta cristiana più difficile e coraggiosa.

La prima è quella di un male distruttivo che si trasforma in bene rigenerante. Il vecchio Ettore mette tutto se stesso in gioco, accettando il rischio, il rifiuto e l’odio comprensibile di chi sta aiutando, mosso non da sensi di colpa, ma dal desiderio di trasformare il male in bene.

Il secondo passo di speranza lo compie proprio Kiko.

E’ il passo più difficile: quello del perdono. E’ narrato senza parole, con le immagini di una corsa che si ferma sulla soglia di una stanza di ospedale ormai vuota.

L’ultimo sasso che Ettore ha lasciato a Kiko in eredità è bianco, senza domande.

Il giovane lo deposita dolcemente sul greto di un ruscello di acqua limpida. Non lo lancia, né lo getta. Lo rimette al suo posto nel flusso della vita.

 

                                                                                                       Enzo Riccò

 

venerdì 21 novembre 2014

le recensioni di Enzo Riccò


E fu sera e fu mattina  di  Emanuele Caruso

 

La persone si assiepano davanti ad un muro scalcinato. Con gli sguardi fissi, silenti di angoscia, osservano una serie di rettangoli numerati, disegnati, quasi graffiti, dalla mano incerta di un vecchio. Quarantanove spazi da barrare, ogni mattino, con un pezzo di carbone: sono i giorni che rimangono prima che tutto finisca: questo mondo e il futuro dei suoi abitanti. E’ la scena che rivela il tema  del film “E fu sera e fu mattina” di Emanuele Caruso.

L’opera prima del giovane regista, narra le reazioni di un piccolo paese delle Langhe, di fronte alla catastrofe imminente annunciata dalla televisione: il sole, esaurito il proprio combustibile, esploderà travolgendo la terra.

La pellicola, come si dice in termini cinematografici, è stata prodotta dal basso, nel senso che non ha avuto alcuna sovvenzione, se non quella dei sottoscrittori che  hanno creduto nella bontà del lavoro e l’hanno finanziato dandogli fiducia. Questo elemento, molto positivo, porta in sé anche il limite della ristrettezza economica. Gli abitanti del paese, chiamati a recitare in alcune scene, con un simpatico e sottotitolato dialetto piemontese, mancano a volte di una scioltezza spontanea. La cosa non dà però inciampo alla narrazione e lo spettatore resta comunque coinvolto in una immedesimazione emotiva che lascia aperta la domanda inquietante: “E se domani succedesse anche a noi?”.

Il regista non è interessato a raccontare le situazioni catastrofiche sociali che emergerebbero dopo una notizia del genere. Anzi, a parte un caso di violenza innescata dall’avidità, meraviglia vedere che il travaglio del paese sia umanamente controllato.

L’attenzione è posta sui percorsi interiori dei soggetti che, non potendo più mentire a se stessi e agli altri, manifestano i lati ombrosi dell’identità o rinnovate forze fatte di vera solidarietà. Il faccia a faccia con la fine dell’intera umanità, scopre le carte del perbenismo e smaschera ogni finzione sociale.

I personaggi principali del film hanno nel loro passato una ferita ancora aperta che li tormenta. Questo “ieri piagato” controllato in uno sforzo di contenimento emotivo, emerge con potenza chiedendo, senza rimandi, lo stabilirsi di nuovi equilibri. Il prete che rimpiange il mancato addio ad una persona cara, il giovane che non si perdona la responsabilità di un incidente, la ragazza che porta il peso di una fallita gravidanza, la coppia di conviventi che subisce il giudizio di una comunità un po’ ottusa.

Emerge una chiara verità: nel momento dei bilanci sostanziali contano solo le persone; quelle che ami, hai amato o pensi di non aver amato abbastanza.

E fu sera e fu mattina”, oltre a prendere il titolo dalla Genesi, attinge in vario modo al tema della fede. Del resto la consapevolezza del limite massimo umano, che è la morte, porta necessariamente ad interrogarsi sull’esistenza di un Dio benevolo.

Così la comunità, presente in una chiesa parrocchiale gremita, attende ammutolita e attonita, una risposta alla pressante richiesta di senso per una fine che è vicina. E’ la domanda che ogni credente pone a Dio di fronte alla sofferenza e alla morte.

Il parroco Francesco, con grande intuizione spirituale, non risponde, ma pone senza parole, il crocefisso davanti ai fedeli, mettendosi anche lui  tra loro.

Per la fede cristiana non c’è infatti risposta logica o razionalmente accettabile se non quella di guardare il “Dio-uomo” che muore come gli altri uomini e prova anch’egli paura e angoscia di fronte alla fine.

Significativo è vedere che molti escono delusi e quasi offesi dalla chiesa per una risposta mancata. Chi rimane si affida a Dio in una vicinanza che rinasce dalla compassione intesa come patire comune.

E’ un affidamento lacerante, ma non disperato, che assume la fisionomia della vera speranza.

Come diceva don Primo Mazzolari, nel tempo miserabile della guerra: “La speranza è un credito fatto a Dio oltre ciò che l’uomo può vedere e capire”.

 

Enzo Riccò

 

 



Il Giovane Favoloso  di   Mario Martone

Il giovane favoloso” è la pellicola che Mario Martone ha realizzato sull’opera e sul percorso umano, più che sulla figura, di Giacomo Leopardi. Ambientato tra Recanati, Roma, Firenze e Napoli, presenta in modo stimolante situazioni emotive, personaggi e ambienti che hanno avuto a che fare con il poeta.

Le inquadrature sono spesso prive di parole, accompagnate da citazioni fuori campo di testi poetici, come se fossero pensieri. Fotografia e musiche sono ben studiate e danno alla composizione  un riquadro suggestivo.

Questo film non è una biografia. Presenta quindi il personaggio secondo una lettura personale del regista. E solo su questa si può riflettere, non sulla verità esistenziale, che mai conosceremo fino in fondo, né su quella storica che è campo di indagine dei letterati.

I media, con grande risonanza,  hanno evidenziato in quest’opera il superamento di una fisionomia del poeta scoraggiata e rinunciataria, frutto, a dir loro, di anni di insegnamenti scolastici schiavi di modelli precostituiti e noiosamente ripetuti. Ma già i manuali di letteratura, più di trent’anni fa, ammonivano che occorreva sfatare l’idea di un Leopardi chiuso nel suo dolore e introverso, per abbracciare una figura quotidianamente eroica che porta avanti i principi senza fermarsi davanti ai rifiuti. Nessuna novità dunque su questo argomento, ma forse una ripresa, anche in linea con altre produzioni teatrali del regista, di temi che fanno l’occhiolino ad un pensiero liberal-radicale che oggi, rispetto al passato, è più anticattolico che anticlericale, più relativista che scettico.

Martone che nella sua ultima realizzazione cinematografica “Noi credevamo” dà risalto alla spinta risorgimentale come ispirazione di una rinnovata coesione culturale del nostro paese, anche in questo film non sottolinea gli aspetti intimistici della produzione leopardiana ma dà rilievo invece ai testi che inducono ad una lettura più politico sociale. Sintomatica la chiusura delle riprese con immagini di un Vesuvio vomitante lava mentre si odono i versi  de “La ginestra”. Questo debole arbusto diventa simbolo di fratellanza umana, contro le illusioni, le speranze e gli inganni mitologici-religiosi.

E’ incoraggiante vedere un Leopardi che affronta i suoi mali fisici e l’ottusità delle persone che lo circondano con forza, aggressività e, spesso, anche ironia. E’ un uomo sofferente, ma grintoso, desideroso di lottare, in continua ricerca di autonomia e riconoscimento del suo giusto valore, senza compromessi o aiuti nepotistici. Ma resta evidente la caduta della speranza di fronte ad una natura crudelmente ignara, che ha  la voce e l’aspetto  dell’anaffettiva madre.

Una caduta di speranza che nel film ha due volti. Quello ceruleo, ad occhi semi aperti, della defunta Silvia deposta nella bara, e quello dispotico del padre che, in una ventosa notte autunnale, frena gli entusiasmi di fuga del giovane. E’ una speranza che rotola come le nocciole che escono dal grembiule della ragazza amata e che Giacomo aiuta a raccogliere con imbarazzo senza avere il coraggio di manifestare i propri sentimenti.

In un dialogo Leopardi si arrabbia contro chi attribuisce alla sua infermità l’origine della sua pessimistica valutazione degli uomini e della natura, sfidando l’interlocutore a smentirlo sui principi e a non trovare giustificazioni pietistiche. Si può però pensare, almeno guardando le scene del film,  che non sia stata la piaga del corpo che abbia fortemente condizionato la sua vita e l’orientamento delle sue opere, bensì un’altra ferita. Detta con le parole del titolo di un famoso saggio, forse  è stata  la “ferita dei non amati”.

Del resto è lo stesso Giacomo che afferma, di fronte all’amico Giordani, di non cercare fama o gloria, ma solo d’essere amato. Infatti oltre ai pochi che gli sono fedeli e alla vicinanza giovanile dei fratelli, il regista ci mostra un Leopardi solo. Un uomo  rispettato, temuto, invidiato, deriso, manipolato, ma mai sinceramente amato. Le figure che gli girano attorno sono affettivamente destabilizzanti. Un padre possessivamente protettivo e carceriere, una madre ottusamente bigotta, uno zio falsamente illuminato e preoccupato di mantenere privilegi nobiliari, un amico disponibile, ma dai tratti edonistico narcisisti. Il mondo degli uomini lo avvicina come fenomeno, come prodigio, come sublime forza creativa, ma mai come uomo. Così Giacomo ha smania di fuggire perché ogni luogo lo nausea: Recanati che non lo capisce, Firenze e Roma con le loro falsità e anche Napoli con i suoi figli chiamati “pulcinelli”. E’ una fuga per cercare una serenità d’animo che mai troverà.

Suggestiva la scena in cui, dopo l’ennesima delusione amorosa e di amicizia,  è accovacciato, in una fetale sofferenza, sull’erba fangosa in riva all’Arno. Dall’alto il cielo si specchia nell’acqua. E’ come il grande grembo dell’incompresa natura che ha partorito un piangente neonato senza madre.

Enzo Riccò

 
 

Walesa, l’uomo della speranza   di   Andrzej Waida


Una storica intervista fa da spunto all’ultimo film di Wajda: “Walesa, l’uomo della speranza”. L’incontro, avvenuto realmente, fronteggia due personaggi della storia contemporanea europea, dai tratti burberi e dal linguaggio scarno: Oriana Fallaci, una donna senza mezze misure,  e l’elettricista, che dalle lamiere dei cantieri di Danzica, arriverà alla poltrona presidenziale della Polonia.

Tra nuvole di fumo (decine e decine di sigarette consumate davanti ad un magnetofono) Walesa racconta le sue vicende personali, dal primo sciopero del 1970, bagnato dal sangue di ottanta operai uccisi, alla dirigenza del primo sindacato libero di un paese filosovietico che rovescerà pacificamente un regime mal tollerato dai polacchi.

Ne esce chiaramente il profilo di un paese con una forte radice nazionalista che trova fondamento e alimento in una fede religiosa convinta, quasi eroica, abbastanza lontana dal tiepido cattolicesimo dei nostri paesi secolarizzati.

Interessante anche la figura del sindacalista di Danzica, probabilmente corrispondente al vero. Un uomo immediato, diretto, incapace di orpelli diplomatici, dalla parola spontanea e non meditata, che affascina le folle. Un leader puro, né costruito, né studiato, dal piglio sicuro, quasi arrogante, nel difendere i diritti e nel chiedere giustizia. Ma anche un padre affettuoso e un marito disposto ad accettare i rimproveri della moglie che con grande sacrificio accetta, a discapito suo e dei suoi figli – ne avrà alla fine ben otto – di lasciare che la persona amata sia personaggio pubblico nel male, delle numerose carcerazioni, e nel bene dell’impegno sociale. La donna andrà nel 1983 a ritirare il premio Nobel per la pace al posto del marito, subendo umiliazioni psicologiche e fisiche al rientro in patria. Come frequentemente si dice, credo valga anche per lei la frase consueta: grandi uomini hanno al fianco  grandi donne, che vivono nell’ombra della storia pubblica, ma nel vivo delle vicende umane.

Il film di Wajda è ben costruito. Assume una fisionomia documentaristica senza essere didascalico. Il regista inserisce spesso spezzoni di filmati d’epoca virando dal colore al bianco e nero per non far percepire la distinzione tra finzione cinematografica e ripresa della realtà. Si fa solo un accenno, a mio parere insufficiente,  al legame e soprattutto all’ispirazione che Solidarnosc e lo stesso Walesa hanno avuto dal nuovo pontefice, venuto dalla loro terra.

Resta aperta la questione del titolo del film. Dove si percepisce il riferimento alla speranza?

C’è una scena che viene ripetuta più volte quasi a sottolinearne una valenza metaforica. Ogni volta che il leader di Solidarnosc viene arrestato consegna alla moglie,come reliquie, la fede matrimoniale e il suo orologio. Il motivo addotto è quello dell’eventuale sostegno economico in caso di difficoltà future. Ma come non pensare a questi due oggetti come figure simboliche?

L’anello ci rimanda all’impegno e alla fedeltà di fronte ad un valore condiviso e, in modo particolare, alla fiducia in un futuro costruito nella comunione. L’orologio segna il tempo che ci è dato da vivere, entro il quale dobbiamo impegnarci per costruire questo futuro. Questa è la speranza.

Essere portatori di speranza significa credere nel domani vivendo intensamente l’oggi; vivendo con pienezza e unicità questo spazio esistenziale per consegnare un  mondo migliore agli adulti di domani.


Enzo Riccò
 

Grand Budapest Hotel     di Wes Anderson


Primo colloquio di lavoro: il responso di chi pone le domande è chiaro. Esperienza: zero. Istruzione: zero. Famiglia: zero. Viene così chiamato Zero il  personaggio principale del film “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson.



La pellicola presenta l’esperienza di un giovane fattorino che si pone sotto l’ala protettiva del carismatico concierge dell’albergo, diventandone prima fedele e affidabile discepolo, poi compagno di carambolesche avventure che ruotano attorno all’assassinio di una nobile anziana e al furto di un quadro di grande valore. E’ la storia di un discepolato ossequioso che si trasforma in amicizia e fratellanza.


La narrazione è ironica, surreale,  quasi fiabesca. I colori sono a tinte calde e intense e le ambientazioni, di gusto scenico teatrale,  fanno allusione ai fumetti o ai pannelli variopinti dei luna park. I personaggi sono caratterizzati in modo chiaro, proprio come in una favola: la madre ricca e infelice, il figlio avido, le sorelle stupide, il burocrate puntiglioso, il sicario malvagio, e così via. C’è un riferimento canzonatorio, abbastanza evidente, anche all’ideologia nazista.

E’ proprio nell’estrosità del dato tecnico di ripresa che possiamo trovare il primo riferimento di lettura contenutistica del film.


Le scene sono fortemente caratterizzate da una simmetria quasi ossessiva. Tutto  è centrato e bilanciato secondo una dualità continuamente ripetuta. L’ascensore, il treno, la funicolare, la funivia, i secondini e i detenuti nel carcere: sempre due o più  elementi, oggetti o persone, che si fronteggiano. Questi porsi uno di fianco all’altro in equilibrio ci rimanda ad una situazione di equità che inizialmente non esiste. C’è una asimmetria primaria data da un maestro e un discepolo, tra un “arrivato” e un “buono a nulla”. Questa disparità diventerà simmetria dualistica, portando pari dignità a due persone che si riconosceranno infine come fratelli. E’ la bella storia di un riscatto sociale di chi inizialmente è solo armato di speranza.


Il secondo elemento di lettura è riscontrabile, a mio parere, nell’affabilità, un po’ narcisistica, del concierge Gustave. E’ un modo di porsi, non formale, che racchiude una saggezza relazionale, dal sapore antico, ma ci parla del presente.


Il  primo responsabile dell’albergo, si pone nei confronti dei subalterni in modo severo ed esigente, ma mai umiliante. Si esprime, con una certa leziosità verbale, senza però  ledere il valore delle persone con giudizi corrosivi.  Tratta il giovane Zero, ultimo degli arrivati, con ferma direzione istruttiva; sembrerebbe anaffettivo, ma arriverà a dare la vita per difendere il ragazzo.


Questo personaggio fa emergere una riflessione sulle modalità di confronto e scontro dialogico tra le persone. Gustave ha uno stile  fatto di gesti e parole pregnanti di rispetto e considerazione per l’alterità.


In un mondo che ha fatto della chiassosa maleducazione l’attrattiva fondamentale dei media, la forbita delicatezza verbale di Gustave, ci fa riflettere. Basti pensare alle litigiose arene televisive, dove si passa con superficialità da questioni esistenziali alla vacuità del gossip, o  alle inebetenti convivenze dei reality, dove si auspicano e si facilitano volgari  e beceri alterchi. Per non ricordare come si sviluppano, in modo litigioso, i programmi televisivi di confronto politico. Gli ascolti si alzano con la rabbia manifestata,  l’intolleranza magari accompagnata da insulti.


Questo film ci propone una lettura della forza della gentilezza che, al di là dell’essere elemento anacronistico, è spinta educativa per la costruzione di una convivenza più pacifica.


Un proverbio arabo afferma che ogni parola, prima di essere pronunciata, dovrebbe passare, come in un filtro, attraverso  tre porte con una domanda di sbarramento per poter proseguire. Sulla prima soglia, dovrebbe esserci scritto: “La parola è vera?”. Sulla seconda porta dovrebbe campeggiare l’istanza: “E’ necessaria?”. Sulla terza si dovrebbe scolpire, come nel marmo, l’ultima domanda: “E’ gentile?”.


Solo se veritiera, necessaria, e  infine anche gentile, la parola potrà uscire dalla bocca per essere costruttiva.


Enzo Riccò


Il capitale umano
   di  Paolo Virzì



Il film di Paolo Virzì, Il capitale umano, già vincitore del David di Donatello, è stato scelto per rappresentare l’Italia nella prossima corsa all’Oscar come migliore opera straniera.

La pellicola ha una costruzione narrativa molto interessante: la stessa vicenda viene presentata, in forma di capitoli, attraverso l’esperienza diversa dei personaggi coinvolti. Quattro angolature della macchina da presa, che ci narra come un drammatico incidente stradale, dove perde la vita un ignoto ciclista, sconquassi la vita due famiglie benestanti della Brianza.

Il regista presenta in modo aspro il cinismo e la cupidigia di una comunità ambiziosa e  senza scrupoli, accecata dalla sete di potere dato dal denaro e dal successo.

Virzì, parlando del film, dice: “Soprattutto si narra come il denaro, l’ansia di moltiplicarlo, l’angoscia di perderlo, determini la vita affettiva, il destino, il valore delle persone”.

Emerge qualche sorriso in sala quando la buffonaggine sguaiata del personaggio interpretato ottimamente dall’attore Bentivoglio,  mostra grottesche, quanto umilianti,  pose da “bauscia”milanese per essere accolto dall’alta società. Ma ci sarebbe da piangere al pensare che la perfidia di un amorale mondo finanziario, fatto di pacche sulle spalle, ostentato e becero ottimismo, esiste davvero. Persone che si arricchiscono attraverso speculazioni senza regole puntando, come si dice nel film, sulla rovina di un paese.

Come ha voluto mostrare il regista, la brama del potere e il dio “mammona” non accettano compromessi. Vengono calpestati, senza alcun rimorso, legami e intimità famigliari, sogni e desideri di realizzazione, doverose attenzioni educative, la stessa verità che dovrebbe fare luce per la giustizia. 

Ricchi o disgraziati sono mossi dalle stessa corrosiva bramosia. 

C’è una folla che banchetta in lussuosi giardini sulle note di Vivaldi, elargendo in modo teatrale larghi sorrisi e complimenti ipocriti e ci sono i miseri che vivono in sgualciti  condomini sbarcando il lunario tra attività illegali e miraggi di facili ricchezze esotiche.

Il padre Dino vende senza perplessità i segreti della figlia, non per senso di giustizia, ma per avido riscatto vendicativo; lo zio di Luca anziché proteggere il fragile nipote, rimasto orfano, ne sfrutta le limitate risorse e lo sacrifica a pagare le colpe che sono sue; il temuto e falsamente compassato uomo di finanza usa le persone, e la stessa moglie, senza remore, facendo del successo economico il suo unico orizzonte di vita.

Come non rimanere turbati da questo impietoso profilo di società corrotta e corrosa dalla cupidigia. Anche perché tutti i personaggi sono infelici, sebbene seguano queste illusioni come canti di sirene che promettono facile e sicura felicità.

Sembra non esserci spazio alcuno per la costruzione di un mondo migliore. Eppure Virzì non ci lascia con l’amaro in bocca di una disfatta totale.

Due scene ci riportano ad un barlume di speranza.

Un abbraccio, segno di vera vicinanza affettiva, tra Roberta, compagna dell’arrivista Dino e la figlia di lui, la sanguigna Serena.

Contro l’arroganza del dio denaro, si oppone un legame di vera compassione, che non si può vendere, né acquistare. E’ gratuito, come l’affetto che si dona. Ma la cosa più interessante da notare è che tra le braccia di queste due donne che  si stringono, pulsa una nuova vita, segno di un futuro diverso. Roberta porta in grembo due gemelle. Un abbraccio a quattro, tutto al femminile.

Possiamo dire che per Virzì la speranza è donna. Anche perché nel film – e lo dico con velo di tristezza essendo uomo – i maschi rappresentano l’elemento perverso e debole della comunità rappresentata. Le donne de “Il capitale umano” mostrano una certa fragilità, ma fermezza e determinazione, fino al sacrificio, per proteggere e difendere ciò che vale.

Ancora una volta la creatività del linguaggio cinematografico è specchio di una fisionomia sociale, non solo nel denunciare il pericolo dei miti illusori della falsa realizzazione, ma per evidenziare una ormai evidente debolezza che oggi vive la figura maschile, forse riflesso di una incertezza della stessa funzione paterna.

E infine la sequenza finale, senza parole.

Due giovani si guardano teneramente con un sorriso che ha finalmente, dopo tanta ipocrisia, tutto il sapore della verità.


Enzo Riccò



Se chiudo gli occhi non sono più qui   di   Vittorio Moroni


Kiko tiene nel pugno una piccola pietra scura, deforme e rugosa, resto di una meteorite: è per lui più di un amuleto. E’ come un viatico esistenziale che gli ha lasciato il padre, morto tragicamente sulla strada, travolto da un colpevole senza nome.

Il ragazzo sogna universi paralleli e guarda il cielo notturno nel desiderio di colmare un buco di sofferenza che non si chiude mai, anche quando, con una pinza, si contorce le carni del braccio fino al limite della sopportazione.

Il film di Vittorio Moroni, “Se chiudo gli occhi non sono più qui”, presenta la figura di un giovane inquieto, figlio di una filippina e di un italiano, che deve gestire una problematica situazione emotiva.

La madre, sommersa di debiti contratti dal marito,  convive con un altro uomo, aggressivo e irascibile, che fa del lavoro la sua unica ragione di vita. Kiko deve conciliare, senza riuscirci scuola e lavoro. Dopo la tragica vicenda dell’incidente è sempre tormentato da un senso di vuoto. Fugge da un mondo che non capisce. Si rifugia in un arrugginito autobus che ha trasformato in tana, circondato da chincaglierie, oggetti e foto ingiallite del padre morto che gli sorride.

Nel suo nascondiglio tutto è fermo, secondo una staticità asfissiante che reprime ogni  slancio di rinnovante cambiamento. La rabbia cova tra le lamiere di un mezzo che, per antitesi rispetto al suo uso, non trasporta più nessuno.  Anche l’iguana, l’unico amico silenzioso, si muove con una lentezza che ci riporta ai tempi delle antiche ere geologiche.

Il riferimento alle stelle è frequente in modo esplicito nel film: nomi di astri, distanza tra corpi celesti.  E il bus, divorato da sterpaglie, è come una stella fissa: una nostalgica inquietudine attorno alla quale si espande e ruota l’universo di una vita segnata da destini che sembrano inevitabili e senza speranza. I debiti lasciati in eredità dal padre, il duro lavoro nel cantiere che non gli lascia tempo allo studio, una scuola distratta e inerme di fronte ad un ragazzo che si addormenta  bocconi sul banco, un nuovo padre padrone che lo vuole iniziare alla fatica del mondo adulto tra rimproveri, botte ed obblighi di manovalanza.

Questo sistema planetario relazionale - emotivo, senza orizzonte,  viene però destabilizzato da una enigmatica figura: Ettore. L’anziano insegnante dice di essere stato amico del padre e vuole accendere nell’adolescente una nuova passione per la vita, attraverso il gusto di un sapere esistenziale. Gli fa assaporare la saggezza della  domanda, quella che motiva con dirompente forza la ricerca interiore.

Le domande sono così scritte, con pennarello indelebile, su sassi di fiume che sembrano formare il fondamento di un rinnovato percorso.

Ma quando tutto assume un indirizzo positivo, una nuova conoscenza fa esplodere, come un big bang,  ogni equilibrio. Il portatore del bene è fonte dell’antico male e chi sembrava amico diventa il peggiore dei nemici da odiare. L’origine della più radicale sofferenza.

Con il cuore rivolto alle stelle, il giovane arriva ad una triste conclusione: “Quando una grande stella muore diventa un buco nero: tutto ingoia e nulla torna più indietro”.

“Se chiudo gli occhi non sono più qui”, tra le dolorose, quanto possibili vicende che illustra, è un film portatore di grandi segni di speranza, differentemente da quanto possa apparire.

La speranza di un sapere che diventa medicina sanante quando entra a contatto con la vita. Un sapere che non è fatto di risposte nozionistiche, ma di interrogativi profondi e motivanti,  che ci spingono oltre l’immobilismo di un destino precostituito e demoralizzante.

Ma c’è di più.

Tra le pieghe della narrazione emergono altri due volti della speranza che hanno l’aroma della proposta cristiana più difficile e coraggiosa.

La prima è quella di un male distruttivo che si trasforma in bene rigenerante. Il vecchio Ettore mette tutto se stesso in gioco, accettando il rischio, il rifiuto e l’odio comprensibile di chi sta aiutando, mosso non da sensi di colpa, ma dal desiderio di trasformare il male in bene.

Il secondo passo di speranza lo compie proprio Kiko.

E’ il passo più difficile: quello del perdono. E’ narrato senza parole, con le immagini di una corsa che si ferma sulla soglia di una stanza di ospedale ormai vuota.

L’ultimo sasso che Ettore ha lasciato a Kiko in eredità è bianco, senza domande.

Il giovane lo deposita dolcemente sul greto di un ruscello di acqua limpida. Non lo lancia, né lo getta. Lo rimette al suo posto nel flusso della vita.


                                                                                                       Enzo Riccò

venerdì 7 novembre 2014

Terzo film in programmazione: IL CAPITALE UMANO

Vi aspettiamo MARTEDì 11 NOVEMBRE 2014...



TEMPI NUOVI – segni di speranza nel cinema di oggi

Con un incontro pubblico presso il cinema Mignon giovedì 30 ottobre è iniziata la rassegna cinematografica promossa da Diocesi e Azione Cattolica di Mantova avente a tema la speranza.
Nell’introdurre l’evento Enzo Riccò ha ricordato la sfida intrapresa dall’Azione Cattolica già 25 anni fa che proponeva, nella stessa sala del Mignon, una serie di film per approfondire la riflessione e il confronto su temi non solo religiosi ma anche legati al vivere.
Dopo lo scorso anno dedicato, in linea con la Chiesa universale, alla fede, quest’anno si è scelto il tema della speranza sia per sottolineare la necessità di dare visibilità e slancio alle situazioni dove, rispetto al disorientamento, prevale lo sforzo e la determinazione della ricerca di senso, sia una visione del futuro che vince la tentazione diffusa di vederlo solo negativo, con paura e angoscia.
Il dott. Luciano Orsi, direttore della struttura ospedaliera di cure palliative, e mons. Paolo Gibelli, parroco e vicario pastorale per i rapporti col territorio, hanno offerto un loro breve e incisivo contributo.
Il pensiero di filosofi e persone di fede ha in comune un aspetto centrale: la speranza – virtù in se stessa difficile da vivere e dimostrare - è un valore per tutti gli uomini e le donne che vivono usando sia la testa che il cuore.
Il pensiero del medico, agnostico, è la constatazione che la speranza esiste e si concretizza nella trasmissione di valori legati alla convivenza: infatti essi hanno senso e significato indipendentemente dal contesto e dal patrimonio culturale di ciascuno. Due le conseguenze sottolineate: riscontrare che nell’animo umano vi è la tensione di lasciare il mondo migliore di come lo si è trovato; l’essere tolleranti con il pensiero e l’etica altrui porta ad un confronto che infonde energia, ricchezza e vivacità (anche se al costo di fatica, dubbio, incertezza …).
Il sacerdote mette in risalto il tema come sfida per la Chiesa e per i credenti nei tempi in cui viviamo. Ripercorrendo la vita e la testimonianza dell’ebrea Etty Hillesum, del protestante Bonhoeffer, dell’ortodosso Silvano dell’Atos si rende evidente che anche nelle situazioni più buie e negli inferni del nostro tempo è possibile sperare e portare speranza.
Anche la Sacra Scrittura riporta varie situazioni di perdita di libertà e di speranza: nel momento della Resurrezione di Gesù, dopo la sua morte e la desolazione della tomba vuota in cui si fa lutto anche delle nostre “speranze piccole”, nasce la Speranza nuova, che muta il pianto in sorriso.
Il numeroso pubblico ha infine potuto gustare un film in anteprima, in uscita nelle sale a metà novembre: “Sarà un paese” di Nicola Campiotti. Lo sguardo sorridente e curioso di un bambino di 9 anni indaga varie località e situazioni problematiche dell’Italia. Avvenimenti, cultura, natura, esempi concreti di passione e impegno personale e civile lo convincono della bellezza di crescere nel nostro paese.
La rassegna cinematografica prosegue con altre 7 pellicole in programmazione nelle giornate di martedì (dal 4 novembre al 16 dicembre) alle ore 18 e alle ore 21 con tessera al costo di € 20 (ingresso singolo € 7).
Il film previsto per il 9 dicembre “E fu sera e fu mattina” di E. Caruso sarà introdotto dall’intervento del vescovo Roberto “Crisi e nuovi segni di speranza nel nostro tempo” (ore 20,30).
Lo spazio del confronto, oltre alla piazzetta antistante il cinema, si estende grazie al blog appositamente aperto: http://tempinuovidisperanza.blogspot.it/ (cui si può accedere anche dal sito dell’Azione Cattolica di Mantova) è possibile trovare anticipazioni, commenti e postare i propri pensieri dopo la visione.


(Cecilia Gavioli)

giovedì 6 novembre 2014

La recensione di Enzo Riccò





Grand Budapest Hotel     di Wes Anderson

Primo colloquio di lavoro: il responso di chi pone le domande è chiaro. Esperienza: zero. Istruzione: zero. Famiglia: zero. Viene così chiamato Zero il  personaggio principale del film “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson.

La pellicola presenta l’esperienza di un giovane fattorino che si pone sotto l’ala protettiva del carismatico concierge dell’albergo, diventandone prima fedele e affidabile discepolo, poi compagno di carambolesche avventure che ruotano attorno all’assassinio di una nobile anziana e al furto di un quadro di grande valore. E’ la storia di un discepolato ossequioso che si trasforma in amicizia e fratellanza.

La narrazione è ironica, surreale,  quasi fiabesca. I colori sono a tinte calde e intense e le ambientazioni, di gusto scenico teatrale,  fanno allusione ai fumetti o ai pannelli variopinti dei luna park. I personaggi sono caratterizzati in modo chiaro, proprio come in una favola: la madre ricca e infelice, il figlio avido, le sorelle stupide, il burocrate puntiglioso, il sicario malvagio, e così via. C’è un riferimento canzonatorio, abbastanza evidente, anche all’ideologia nazista.

E’ proprio nell’estrosità del dato tecnico di ripresa che possiamo trovare il primo riferimento di lettura contenutistica del film.

Le scene sono fortemente caratterizzate da una simmetria quasi ossessiva. Tutto  è centrato e bilanciato secondo una dualità continuamente ripetuta. L’ascensore, il treno, la funicolare, la funivia, i secondini e i detenuti nel carcere: sempre due o più  elementi, oggetti o persone, che si fronteggiano. Questi porsi uno di fianco all’altro in equilibrio ci rimanda ad una situazione di equità che inizialmente non esiste. C’è una asimmetria primaria data da un maestro e un discepolo, tra un “arrivato” e un “buono a nulla”. Questa disparità diventerà simmetria dualistica, portando pari dignità a due persone che si riconosceranno infine come fratelli. E’ la bella storia di un riscatto sociale di chi inizialmente è solo armato di speranza.

Il secondo elemento di lettura è riscontrabile, a mio parere, nell’affabilità, un po’ narcisistica, del concierge Gustave. E’ un modo di porsi, non formale, che racchiude una saggezza relazionale, dal sapore antico, ma ci parla del presente.

Il  primo responsabile dell’albergo, si pone nei confronti dei subalterni in modo severo ed esigente, ma mai umiliante. Si esprime, con una certa leziosità verbale, senza però  ledere il valore delle persone con giudizi corrosivi.  Tratta il giovane Zero, ultimo degli arrivati, con ferma direzione istruttiva; sembrerebbe anaffettivo, ma arriverà a dare la vita per difendere il ragazzo.

Questo personaggio fa emergere una riflessione sulle modalità di confronto e scontro dialogico tra le persone. Gustave ha uno stile  fatto di gesti e parole pregnanti di rispetto e considerazione per l’alterità.

In un mondo che ha fatto della chiassosa maleducazione l’attrattiva fondamentale dei media, la forbita delicatezza verbale di Gustave, ci fa riflettere. Basti pensare alle litigiose arene televisive, dove si passa con superficialità da questioni esistenziali alla vacuità del gossip, o  alle inebetenti convivenze dei reality, dove si auspicano e si facilitano volgari  e beceri alterchi. Per non ricordare come si sviluppano, in modo litigioso, i programmi televisivi di confronto politico. Gli ascolti si alzano con la rabbia manifestata,  l’intolleranza magari accompagnata da insulti.

Questo film ci propone una lettura della forza della gentilezza che, al di là dell’essere elemento anacronistico, è spinta educativa per la costruzione di una convivenza più pacifica.

Un proverbio arabo afferma che ogni parola, prima di essere pronunciata, dovrebbe passare, come in un filtro, attraverso  tre porte con una domanda di sbarramento per poter proseguire. Sulla prima soglia, dovrebbe esserci scritto: “La parola è vera?”. Sulla seconda porta dovrebbe campeggiare l’istanza: “E’ necessaria?”. Sulla terza si dovrebbe scolpire, come nel marmo, l’ultima domanda: “E’ gentile?”.

Solo se veritiera, necessaria, e  infine anche gentile, la parola potrà uscire dalla bocca per essere costruttiva.

Enzo Riccò

 
Il capitale umano
   di  Paolo Virzì

 

Il film di Paolo Virzì, Il capitale umano, già vincitore del David di Donatello, è stato scelto per rappresentare l’Italia nella prossima corsa all’Oscar come migliore opera straniera.

La pellicola ha una costruzione narrativa molto interessante: la stessa vicenda viene presentata, in forma di capitoli, attraverso l’esperienza diversa dei personaggi coinvolti. Quattro angolature della macchina da presa, che ci narra come un drammatico incidente stradale, dove perde la vita un ignoto ciclista, sconquassi la vita due famiglie benestanti della Brianza.

Il regista presenta in modo aspro il cinismo e la cupidigia di una comunità ambiziosa e  senza scrupoli, accecata dalla sete di potere dato dal denaro e dal successo.

Virzì, parlando del film, dice: “Soprattutto si narra come il denaro, l’ansia di moltiplicarlo, l’angoscia di perderlo, determini la vita affettiva, il destino, il valore delle persone”.

Emerge qualche sorriso in sala quando la buffonaggine sguaiata del personaggio interpretato ottimamente dall’attore Bentivoglio,  mostra grottesche, quanto umilianti,  pose da “bauscia”milanese per essere accolto dall’alta società. Ma ci sarebbe da piangere al pensare che la perfidia di un amorale mondo finanziario, fatto di pacche sulle spalle, ostentato e becero ottimismo, esiste davvero. Persone che si arricchiscono attraverso speculazioni senza regole puntando, come si dice nel film, sulla rovina di un paese.

Come ha voluto mostrare il regista, la brama del potere e il dio “mammona” non accettano compromessi. Vengono calpestati, senza alcun rimorso, legami e intimità famigliari, sogni e desideri di realizzazione, doverose attenzioni educative, la stessa verità che dovrebbe fare luce per la giustizia. 

Ricchi o disgraziati sono mossi dalle stessa corrosiva bramosia. 

C’è una folla che banchetta in lussuosi giardini sulle note di Vivaldi, elargendo in modo teatrale larghi sorrisi e complimenti ipocriti e ci sono i miseri che vivono in sgualciti  condomini sbarcando il lunario tra attività illegali e miraggi di facili ricchezze esotiche.

Il padre Dino vende senza perplessità i segreti della figlia, non per senso di giustizia, ma per avido riscatto vendicativo; lo zio di Luca anziché proteggere il fragile nipote, rimasto orfano, ne sfrutta le limitate risorse e lo sacrifica a pagare le colpe che sono sue; il temuto e falsamente compassato uomo di finanza usa le persone, e la stessa moglie, senza remore, facendo del successo economico il suo unico orizzonte di vita.

Come non rimanere turbati da questo impietoso profilo di società corrotta e corrosa dalla cupidigia. Anche perché tutti i personaggi sono infelici, sebbene seguano queste illusioni come canti di sirene che promettono facile e sicura felicità.

Sembra non esserci spazio alcuno per la costruzione di un mondo migliore. Eppure Virzì non ci lascia con l’amaro in bocca di una disfatta totale.

Due scene ci riportano ad un barlume di speranza.

Un abbraccio, segno di vera vicinanza affettiva, tra Roberta, compagna dell’arrivista Dino e la figlia di lui, la sanguigna Serena.

Contro l’arroganza del dio denaro, si oppone un legame di vera compassione, che non si può vendere, né acquistare. E’ gratuito, come l’affetto che si dona. Ma la cosa più interessante da notare è che tra le braccia di queste due donne che  si stringono, pulsa una nuova vita, segno di un futuro diverso. Roberta porta in grembo due gemelle. Un abbraccio a quattro, tutto al femminile.

Possiamo dire che per Virzì la speranza è donna. Anche perché nel film – e lo dico con velo di tristezza essendo uomo – i maschi rappresentano l’elemento perverso e debole della comunità rappresentata. Le donne de “Il capitale umano” mostrano una certa fragilità, ma fermezza e determinazione, fino al sacrificio, per proteggere e difendere ciò che vale.

Ancora una volta la creatività del linguaggio cinematografico è specchio di una fisionomia sociale, non solo nel denunciare il pericolo dei miti illusori della falsa realizzazione, ma per evidenziare una ormai evidente debolezza che oggi vive la figura maschile, forse riflesso di una incertezza della stessa funzione paterna.

E infine la sequenza finale, senza parole.

Due giovani si guardano teneramente con un sorriso che ha finalmente, dopo tanta ipocrisia, tutto il sapore della verità.

 

Enzo Riccò

 


Se chiudo gli occhi non sono più qui   di   Vittorio Moroni

 

Kiko tiene nel pugno una piccola pietra scura, deforme e rugosa, resto di una meteorite: è per lui più di un amuleto. E’ come un viatico esistenziale che gli ha lasciato il padre, morto tragicamente sulla strada, travolto da un colpevole senza nome.

Il ragazzo sogna universi paralleli e guarda il cielo notturno nel desiderio di colmare un buco di sofferenza che non si chiude mai, anche quando, con una pinza, si contorce le carni del braccio fino al limite della sopportazione.

Il film di Vittorio Moroni, “Se chiudo gli occhi non sono più qui”, presenta la figura di un giovane inquieto, figlio di una filippina e di un italiano, che deve gestire una problematica situazione emotiva.

La madre, sommersa di debiti contratti dal marito,  convive con un altro uomo, aggressivo e irascibile, che fa del lavoro la sua unica ragione di vita. Kiko deve conciliare, senza riuscirci scuola e lavoro. Dopo la tragica vicenda dell’incidente è sempre tormentato da un senso di vuoto. Fugge da un mondo che non capisce. Si rifugia in un arrugginito autobus che ha trasformato in tana, circondato da chincaglierie, oggetti e foto ingiallite del padre morto che gli sorride.

Nel suo nascondiglio tutto è fermo, secondo una staticità asfissiante che reprime ogni  slancio di rinnovante cambiamento. La rabbia cova tra le lamiere di un mezzo che, per antitesi rispetto al suo uso, non trasporta più nessuno.  Anche l’iguana, l’unico amico silenzioso, si muove con una lentezza che ci riporta ai tempi delle antiche ere geologiche.

Il riferimento alle stelle è frequente in modo esplicito nel film: nomi di astri, distanza tra corpi celesti.  E il bus, divorato da sterpaglie, è come una stella fissa: una nostalgica inquietudine attorno alla quale si espande e ruota l’universo di una vita segnata da destini che sembrano inevitabili e senza speranza. I debiti lasciati in eredità dal padre, il duro lavoro nel cantiere che non gli lascia tempo allo studio, una scuola distratta e inerme di fronte ad un ragazzo che si addormenta  bocconi sul banco, un nuovo padre padrone che lo vuole iniziare alla fatica del mondo adulto tra rimproveri, botte ed obblighi di manovalanza.

Questo sistema planetario relazionale - emotivo, senza orizzonte,  viene però destabilizzato da una enigmatica figura: Ettore. L’anziano insegnante dice di essere stato amico del padre e vuole accendere nell’adolescente una nuova passione per la vita, attraverso il gusto di un sapere esistenziale. Gli fa assaporare la saggezza della  domanda, quella che motiva con dirompente forza la ricerca interiore.

Le domande sono così scritte, con pennarello indelebile, su sassi di fiume che sembrano formare il fondamento di un rinnovato percorso.

Ma quando tutto assume un indirizzo positivo, una nuova conoscenza fa esplodere, come un big bang,  ogni equilibrio. Il portatore del bene è fonte dell’antico male e chi sembrava amico diventa il peggiore dei nemici da odiare. L’origine della più radicale sofferenza.

Con il cuore rivolto alle stelle, il giovane arriva ad una triste conclusione: “Quando una grande stella muore diventa un buco nero: tutto ingoia e nulla torna più indietro”.

“Se chiudo gli occhi non sono più qui”, tra le dolorose, quanto possibili vicende che illustra, è un film portatore di grandi segni di speranza, differentemente da quanto possa apparire.

La speranza di un sapere che diventa medicina sanante quando entra a contatto con la vita. Un sapere che non è fatto di risposte nozionistiche, ma di interrogativi profondi e motivanti,  che ci spingono oltre l’immobilismo di un destino precostituito e demoralizzante.

Ma c’è di più.

Tra le pieghe della narrazione emergono altri due volti della speranza che hanno l’aroma della proposta cristiana più difficile e coraggiosa.

La prima è quella di un male distruttivo che si trasforma in bene rigenerante. Il vecchio Ettore mette tutto se stesso in gioco, accettando il rischio, il rifiuto e l’odio comprensibile di chi sta aiutando, mosso non da sensi di colpa, ma dal desiderio di trasformare il male in bene.

Il secondo passo di speranza lo compie proprio Kiko.

E’ il passo più difficile: quello del perdono. E’ narrato senza parole, con le immagini di una corsa che si ferma sulla soglia di una stanza di ospedale ormai vuota.

L’ultimo sasso che Ettore ha lasciato a Kiko in eredità è bianco, senza domande.

Il giovane lo deposita dolcemente sul greto di un ruscello di acqua limpida. Non lo lancia, né lo getta. Lo rimette al suo posto nel flusso della vita.

 

                                                                                                       Enzo Riccò