E fu sera e fu mattina di Emanuele Caruso
La
persone si assiepano davanti ad un muro scalcinato. Con gli sguardi fissi,
silenti di angoscia, osservano una serie di rettangoli numerati, disegnati,
quasi graffiti, dalla mano incerta di un vecchio. Quarantanove spazi da barrare,
ogni mattino, con un pezzo di carbone: sono i giorni che rimangono prima che
tutto finisca: questo mondo e il futuro dei suoi abitanti. E’ la scena che
rivela il tema del film “E fu sera e fu mattina” di Emanuele
Caruso.
L’opera
prima del giovane regista, narra le reazioni di un piccolo paese delle Langhe,
di fronte alla catastrofe imminente annunciata dalla televisione: il sole,
esaurito il proprio combustibile, esploderà travolgendo la terra.
La
pellicola, come si dice in termini cinematografici, è stata prodotta dal basso,
nel senso che non ha avuto alcuna sovvenzione, se non quella dei sottoscrittori
che hanno creduto nella bontà del lavoro
e l’hanno finanziato dandogli fiducia. Questo elemento, molto positivo, porta
in sé anche il limite della ristrettezza economica. Gli abitanti del paese,
chiamati a recitare in alcune scene, con un simpatico e sottotitolato dialetto
piemontese, mancano a volte di una scioltezza spontanea. La cosa non dà però inciampo
alla narrazione e lo spettatore resta comunque coinvolto in una immedesimazione
emotiva che lascia aperta la domanda inquietante: “E se domani succedesse anche
a noi?”.
Il
regista non è interessato a raccontare le situazioni catastrofiche sociali che
emergerebbero dopo una notizia del genere. Anzi, a parte un caso di violenza
innescata dall’avidità, meraviglia vedere che il travaglio del paese sia
umanamente controllato.
L’attenzione
è posta sui percorsi interiori dei soggetti che, non potendo più mentire a se
stessi e agli altri, manifestano i lati ombrosi dell’identità o rinnovate forze
fatte di vera solidarietà. Il faccia a faccia con la fine dell’intera umanità,
scopre le carte del perbenismo e smaschera ogni finzione sociale.
I personaggi
principali del film hanno nel loro passato una ferita ancora aperta che li
tormenta. Questo “ieri piagato” controllato in uno sforzo di contenimento
emotivo, emerge con potenza chiedendo, senza rimandi, lo stabilirsi di nuovi
equilibri. Il prete che rimpiange il mancato addio ad una persona cara, il
giovane che non si perdona la responsabilità di un incidente, la ragazza che
porta il peso di una fallita gravidanza, la coppia di conviventi che subisce il
giudizio di una comunità un po’ ottusa.
Emerge
una chiara verità: nel momento dei bilanci sostanziali contano solo le persone;
quelle che ami, hai amato o pensi di non aver amato abbastanza.
“E fu sera e fu mattina”, oltre a
prendere il titolo dalla Genesi, attinge in vario modo al tema della fede. Del
resto la consapevolezza del limite massimo umano, che è la morte, porta
necessariamente ad interrogarsi sull’esistenza di un Dio benevolo.
Così
la comunità, presente in una chiesa parrocchiale gremita, attende ammutolita e
attonita, una risposta alla pressante richiesta di senso per una fine che è vicina.
E’ la domanda che ogni credente pone a Dio di fronte alla sofferenza e alla
morte.
Il
parroco Francesco, con grande intuizione spirituale, non risponde, ma pone
senza parole, il crocefisso davanti ai fedeli, mettendosi anche lui tra loro.
Per
la fede cristiana non c’è infatti risposta logica o razionalmente accettabile
se non quella di guardare il “Dio-uomo” che muore come gli altri uomini e prova
anch’egli paura e angoscia di fronte alla fine.
Significativo
è vedere che molti escono delusi e quasi offesi dalla chiesa per una risposta
mancata. Chi rimane si affida a Dio in una vicinanza che rinasce dalla
compassione intesa come patire comune.
E’
un affidamento lacerante, ma non disperato, che assume la fisionomia della vera
speranza.
Come
diceva don Primo Mazzolari, nel tempo miserabile della guerra: “La speranza è
un credito fatto a Dio oltre ciò che l’uomo può vedere e capire”.
Enzo Riccò
Il Giovane Favoloso
di Mario Martone
“Il giovane favoloso” è la pellicola che Mario Martone ha realizzato
sull’opera e sul percorso umano, più che sulla figura, di Giacomo Leopardi.
Ambientato tra Recanati, Roma, Firenze e Napoli, presenta in modo stimolante
situazioni emotive, personaggi e ambienti che hanno avuto a che fare con il
poeta.
Le inquadrature sono spesso
prive di parole, accompagnate da citazioni fuori campo di testi poetici, come
se fossero pensieri. Fotografia e musiche sono ben studiate e danno alla
composizione un riquadro suggestivo.
Questo film non è una
biografia. Presenta quindi il personaggio secondo una lettura personale del
regista. E solo su questa si può riflettere, non sulla verità esistenziale, che
mai conosceremo fino in fondo, né su quella storica che è campo di indagine dei
letterati.
I media, con grande risonanza, hanno evidenziato
in quest’opera il superamento di una fisionomia del poeta scoraggiata e
rinunciataria, frutto, a dir loro, di anni di insegnamenti scolastici schiavi
di modelli precostituiti e noiosamente ripetuti. Ma già i manuali di
letteratura, più di trent’anni fa, ammonivano che occorreva sfatare l’idea di
un Leopardi chiuso nel suo dolore e introverso, per abbracciare una figura
quotidianamente eroica che porta avanti i principi senza fermarsi davanti ai
rifiuti. Nessuna novità dunque su questo argomento, ma forse una ripresa, anche
in linea con altre produzioni teatrali del regista, di temi che fanno
l’occhiolino ad un pensiero liberal-radicale che oggi, rispetto al passato, è
più anticattolico che anticlericale, più relativista che scettico.
Martone che nella sua ultima
realizzazione cinematografica “Noi
credevamo” dà risalto alla spinta risorgimentale come ispirazione di una
rinnovata coesione culturale del nostro paese, anche in questo film non sottolinea
gli aspetti intimistici della produzione leopardiana ma dà rilievo invece ai
testi che inducono ad una lettura più politico sociale. Sintomatica la chiusura
delle riprese con immagini di un Vesuvio vomitante lava mentre si odono i versi de “La
ginestra”. Questo debole arbusto diventa simbolo di fratellanza umana,
contro le illusioni, le speranze e gli inganni mitologici-religiosi.
E’ incoraggiante vedere un
Leopardi che affronta i suoi mali fisici e l’ottusità delle persone che lo
circondano con forza, aggressività e, spesso, anche ironia. E’ un uomo
sofferente, ma grintoso, desideroso di lottare, in continua ricerca di
autonomia e riconoscimento del suo giusto valore, senza compromessi o aiuti
nepotistici. Ma resta evidente la caduta della speranza di fronte ad una natura
crudelmente ignara, che ha la voce e
l’aspetto dell’anaffettiva madre.
Una caduta di speranza che nel
film ha due volti. Quello ceruleo, ad occhi semi aperti, della defunta Silvia
deposta nella bara, e quello dispotico del padre che, in una ventosa notte
autunnale, frena gli entusiasmi di fuga del giovane. E’ una speranza che rotola
come le nocciole che escono dal grembiule della ragazza amata e che Giacomo
aiuta a raccogliere con imbarazzo senza avere il coraggio di manifestare i
propri sentimenti.
In un dialogo Leopardi si
arrabbia contro chi attribuisce alla sua infermità l’origine della sua
pessimistica valutazione degli uomini e della natura, sfidando l’interlocutore
a smentirlo sui principi e a non trovare giustificazioni pietistiche. Si può
però pensare, almeno guardando le scene del film, che non sia stata la piaga del corpo che
abbia fortemente condizionato la sua vita e l’orientamento delle sue opere,
bensì un’altra ferita. Detta con le parole del titolo di un famoso saggio,
forse è stata la “ferita
dei non amati”.
Del resto è lo stesso Giacomo
che afferma, di fronte all’amico Giordani, di non cercare fama o gloria, ma
solo d’essere amato. Infatti oltre ai pochi che gli sono fedeli e alla
vicinanza giovanile dei fratelli, il regista ci mostra un Leopardi solo. Un
uomo rispettato, temuto, invidiato,
deriso, manipolato, ma mai sinceramente amato. Le figure che gli girano attorno
sono affettivamente destabilizzanti. Un padre possessivamente protettivo e
carceriere, una madre ottusamente bigotta, uno zio falsamente illuminato e
preoccupato di mantenere privilegi nobiliari, un amico disponibile, ma dai
tratti edonistico narcisisti. Il mondo degli uomini lo avvicina come fenomeno,
come prodigio, come sublime forza creativa, ma mai come uomo. Così Giacomo ha
smania di fuggire perché ogni luogo lo nausea: Recanati che non lo capisce,
Firenze e Roma con le loro falsità e anche Napoli con i suoi figli chiamati
“pulcinelli”. E’ una fuga per cercare una serenità d’animo che mai troverà.
Suggestiva la scena in cui,
dopo l’ennesima delusione amorosa e di amicizia, è accovacciato, in una fetale sofferenza,
sull’erba fangosa in riva all’Arno. Dall’alto il cielo si specchia nell’acqua.
E’ come il grande grembo dell’incompresa natura che ha partorito un piangente
neonato senza madre.
Enzo Riccò
Walesa, l’uomo della speranza di Andrzej Waida
Una storica intervista fa da spunto all’ultimo film di Wajda: “Walesa, l’uomo della speranza”. L’incontro, avvenuto realmente, fronteggia due personaggi della storia contemporanea europea, dai tratti burberi e dal linguaggio scarno: Oriana Fallaci, una donna senza mezze misure, e l’elettricista, che dalle lamiere dei cantieri di Danzica, arriverà alla poltrona presidenziale della Polonia.
Tra nuvole di fumo (decine e decine di sigarette consumate davanti ad un magnetofono) Walesa racconta le sue vicende personali, dal primo sciopero del 1970, bagnato dal sangue di ottanta operai uccisi, alla dirigenza del primo sindacato libero di un paese filosovietico che rovescerà pacificamente un regime mal tollerato dai polacchi.
Ne esce chiaramente il profilo di un paese con una forte radice nazionalista che trova fondamento e alimento in una fede religiosa convinta, quasi eroica, abbastanza lontana dal tiepido cattolicesimo dei nostri paesi secolarizzati.
Interessante anche la figura del sindacalista di Danzica, probabilmente corrispondente al vero. Un uomo immediato, diretto, incapace di orpelli diplomatici, dalla parola spontanea e non meditata, che affascina le folle. Un leader puro, né costruito, né studiato, dal piglio sicuro, quasi arrogante, nel difendere i diritti e nel chiedere giustizia. Ma anche un padre affettuoso e un marito disposto ad accettare i rimproveri della moglie che con grande sacrificio accetta, a discapito suo e dei suoi figli – ne avrà alla fine ben otto – di lasciare che la persona amata sia personaggio pubblico nel male, delle numerose carcerazioni, e nel bene dell’impegno sociale. La donna andrà nel 1983 a ritirare il premio Nobel per la pace al posto del marito, subendo umiliazioni psicologiche e fisiche al rientro in patria. Come frequentemente si dice, credo valga anche per lei la frase consueta: grandi uomini hanno al fianco grandi donne, che vivono nell’ombra della storia pubblica, ma nel vivo delle vicende umane.
Il film di Wajda è ben costruito. Assume una fisionomia documentaristica senza essere didascalico. Il regista inserisce spesso spezzoni di filmati d’epoca virando dal colore al bianco e nero per non far percepire la distinzione tra finzione cinematografica e ripresa della realtà. Si fa solo un accenno, a mio parere insufficiente, al legame e soprattutto all’ispirazione che Solidarnosc e lo stesso Walesa hanno avuto dal nuovo pontefice, venuto dalla loro terra.
Resta aperta la questione del titolo del film. Dove si percepisce il riferimento alla speranza?
C’è una scena che viene ripetuta più volte quasi a sottolinearne una valenza metaforica. Ogni volta che il leader di Solidarnosc viene arrestato consegna alla moglie,come reliquie, la fede matrimoniale e il suo orologio. Il motivo addotto è quello dell’eventuale sostegno economico in caso di difficoltà future. Ma come non pensare a questi due oggetti come figure simboliche?
L’anello ci rimanda all’impegno e alla fedeltà di fronte ad un valore condiviso e, in modo particolare, alla fiducia in un futuro costruito nella comunione. L’orologio segna il tempo che ci è dato da vivere, entro il quale dobbiamo impegnarci per costruire questo futuro. Questa è la speranza.
Essere portatori di speranza significa credere nel domani vivendo intensamente l’oggi; vivendo con pienezza e unicità questo spazio esistenziale per consegnare un mondo migliore agli adulti di domani.
Enzo Riccò
Grand Budapest Hotel di Wes Anderson
Primo colloquio di lavoro: il responso di chi pone le domande è chiaro. Esperienza: zero. Istruzione: zero. Famiglia: zero. Viene così chiamato Zero il personaggio principale del film “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson.
La pellicola presenta l’esperienza di un giovane fattorino che si pone sotto l’ala protettiva del carismatico concierge dell’albergo, diventandone prima fedele e affidabile discepolo, poi compagno di carambolesche avventure che ruotano attorno all’assassinio di una nobile anziana e al furto di un quadro di grande valore. E’ la storia di un discepolato ossequioso che si trasforma in amicizia e fratellanza.
La narrazione è ironica, surreale, quasi fiabesca. I colori sono a tinte calde e intense e le ambientazioni, di gusto scenico teatrale, fanno allusione ai fumetti o ai pannelli variopinti dei luna park. I personaggi sono caratterizzati in modo chiaro, proprio come in una favola: la madre ricca e infelice, il figlio avido, le sorelle stupide, il burocrate puntiglioso, il sicario malvagio, e così via. C’è un riferimento canzonatorio, abbastanza evidente, anche all’ideologia nazista.
E’ proprio nell’estrosità del dato tecnico di ripresa che possiamo trovare il primo riferimento di lettura contenutistica del film.
Le scene sono fortemente caratterizzate da una simmetria quasi ossessiva. Tutto è centrato e bilanciato secondo una dualità continuamente ripetuta. L’ascensore, il treno, la funicolare, la funivia, i secondini e i detenuti nel carcere: sempre due o più elementi, oggetti o persone, che si fronteggiano. Questi porsi uno di fianco all’altro in equilibrio ci rimanda ad una situazione di equità che inizialmente non esiste. C’è una asimmetria primaria data da un maestro e un discepolo, tra un “arrivato” e un “buono a nulla”. Questa disparità diventerà simmetria dualistica, portando pari dignità a due persone che si riconosceranno infine come fratelli. E’ la bella storia di un riscatto sociale di chi inizialmente è solo armato di speranza.
Il secondo elemento di lettura è riscontrabile, a mio parere, nell’affabilità, un po’ narcisistica, del concierge Gustave. E’ un modo di porsi, non formale, che racchiude una saggezza relazionale, dal sapore antico, ma ci parla del presente.
Il primo responsabile dell’albergo, si pone nei confronti dei subalterni in modo severo ed esigente, ma mai umiliante. Si esprime, con una certa leziosità verbale, senza però ledere il valore delle persone con giudizi corrosivi. Tratta il giovane Zero, ultimo degli arrivati, con ferma direzione istruttiva; sembrerebbe anaffettivo, ma arriverà a dare la vita per difendere il ragazzo.
Questo personaggio fa emergere una riflessione sulle modalità di confronto e scontro dialogico tra le persone. Gustave ha uno stile fatto di gesti e parole pregnanti di rispetto e considerazione per l’alterità.
In un mondo che ha fatto della chiassosa maleducazione l’attrattiva fondamentale dei media, la forbita delicatezza verbale di Gustave, ci fa riflettere. Basti pensare alle litigiose arene televisive, dove si passa con superficialità da questioni esistenziali alla vacuità del gossip, o alle inebetenti convivenze dei reality, dove si auspicano e si facilitano volgari e beceri alterchi. Per non ricordare come si sviluppano, in modo litigioso, i programmi televisivi di confronto politico. Gli ascolti si alzano con la rabbia manifestata, l’intolleranza magari accompagnata da insulti.
Questo film ci propone una lettura della forza della gentilezza che, al di là dell’essere elemento anacronistico, è spinta educativa per la costruzione di una convivenza più pacifica.
Un proverbio arabo afferma che ogni parola, prima di essere pronunciata, dovrebbe passare, come in un filtro, attraverso tre porte con una domanda di sbarramento per poter proseguire. Sulla prima soglia, dovrebbe esserci scritto: “La parola è vera?”. Sulla seconda porta dovrebbe campeggiare l’istanza: “E’ necessaria?”. Sulla terza si dovrebbe scolpire, come nel marmo, l’ultima domanda: “E’ gentile?”.
Solo se veritiera, necessaria, e infine anche gentile, la parola potrà uscire dalla bocca per essere costruttiva.
Enzo Riccò
Il capitale umano di Paolo Virzì
Il film di Paolo Virzì, Il capitale umano, già vincitore del David di Donatello, è stato scelto per rappresentare l’Italia nella prossima corsa all’Oscar come migliore opera straniera.
La pellicola ha una costruzione narrativa molto interessante: la stessa vicenda viene presentata, in forma di capitoli, attraverso l’esperienza diversa dei personaggi coinvolti. Quattro angolature della macchina da presa, che ci narra come un drammatico incidente stradale, dove perde la vita un ignoto ciclista, sconquassi la vita due famiglie benestanti della Brianza.
Il regista presenta in modo aspro il cinismo e la cupidigia di una comunità ambiziosa e senza scrupoli, accecata dalla sete di potere dato dal denaro e dal successo.
Virzì, parlando del film, dice: “Soprattutto si narra come il denaro, l’ansia di moltiplicarlo, l’angoscia di perderlo, determini la vita affettiva, il destino, il valore delle persone”.
Emerge qualche sorriso in sala quando la buffonaggine sguaiata del personaggio interpretato ottimamente dall’attore Bentivoglio, mostra grottesche, quanto umilianti, pose da “bauscia”milanese per essere accolto dall’alta società. Ma ci sarebbe da piangere al pensare che la perfidia di un amorale mondo finanziario, fatto di pacche sulle spalle, ostentato e becero ottimismo, esiste davvero. Persone che si arricchiscono attraverso speculazioni senza regole puntando, come si dice nel film, sulla rovina di un paese.
Come ha voluto mostrare il regista, la brama del potere e il dio “mammona” non accettano compromessi. Vengono calpestati, senza alcun rimorso, legami e intimità famigliari, sogni e desideri di realizzazione, doverose attenzioni educative, la stessa verità che dovrebbe fare luce per la giustizia.
Ricchi o disgraziati sono mossi dalle stessa corrosiva bramosia.
C’è una folla che banchetta in lussuosi giardini sulle note di Vivaldi, elargendo in modo teatrale larghi sorrisi e complimenti ipocriti e ci sono i miseri che vivono in sgualciti condomini sbarcando il lunario tra attività illegali e miraggi di facili ricchezze esotiche.
Il padre Dino vende senza perplessità i segreti della figlia, non per senso di giustizia, ma per avido riscatto vendicativo; lo zio di Luca anziché proteggere il fragile nipote, rimasto orfano, ne sfrutta le limitate risorse e lo sacrifica a pagare le colpe che sono sue; il temuto e falsamente compassato uomo di finanza usa le persone, e la stessa moglie, senza remore, facendo del successo economico il suo unico orizzonte di vita.
Come non rimanere turbati da questo impietoso profilo di società corrotta e corrosa dalla cupidigia. Anche perché tutti i personaggi sono infelici, sebbene seguano queste illusioni come canti di sirene che promettono facile e sicura felicità.
Sembra non esserci spazio alcuno per la costruzione di un mondo migliore. Eppure Virzì non ci lascia con l’amaro in bocca di una disfatta totale.
Due scene ci riportano ad un barlume di speranza.
Un abbraccio, segno di vera vicinanza affettiva, tra Roberta, compagna dell’arrivista Dino e la figlia di lui, la sanguigna Serena.
Contro l’arroganza del dio denaro, si oppone un legame di vera compassione, che non si può vendere, né acquistare. E’ gratuito, come l’affetto che si dona. Ma la cosa più interessante da notare è che tra le braccia di queste due donne che si stringono, pulsa una nuova vita, segno di un futuro diverso. Roberta porta in grembo due gemelle. Un abbraccio a quattro, tutto al femminile.
Possiamo dire che per Virzì la speranza è donna. Anche perché nel film – e lo dico con velo di tristezza essendo uomo – i maschi rappresentano l’elemento perverso e debole della comunità rappresentata. Le donne de “Il capitale umano” mostrano una certa fragilità, ma fermezza e determinazione, fino al sacrificio, per proteggere e difendere ciò che vale.
Ancora una volta la creatività del linguaggio cinematografico è specchio di una fisionomia sociale, non solo nel denunciare il pericolo dei miti illusori della falsa realizzazione, ma per evidenziare una ormai evidente debolezza che oggi vive la figura maschile, forse riflesso di una incertezza della stessa funzione paterna.
E infine la sequenza finale, senza parole.
Due giovani si guardano teneramente con un sorriso che ha finalmente, dopo tanta ipocrisia, tutto il sapore della verità.
Enzo Riccò
Se chiudo gli occhi non sono più qui di Vittorio Moroni
Kiko tiene nel pugno una piccola pietra scura, deforme e rugosa, resto di una meteorite: è per lui più di un amuleto. E’ come un viatico esistenziale che gli ha lasciato il padre, morto tragicamente sulla strada, travolto da un colpevole senza nome.
Il ragazzo sogna universi paralleli e guarda il cielo notturno nel desiderio di colmare un buco di sofferenza che non si chiude mai, anche quando, con una pinza, si contorce le carni del braccio fino al limite della sopportazione.
Il film di Vittorio Moroni, “Se chiudo gli occhi non sono più qui”, presenta la figura di un giovane inquieto, figlio di una filippina e di un italiano, che deve gestire una problematica situazione emotiva.
La madre, sommersa di debiti contratti dal marito, convive con un altro uomo, aggressivo e irascibile, che fa del lavoro la sua unica ragione di vita. Kiko deve conciliare, senza riuscirci scuola e lavoro. Dopo la tragica vicenda dell’incidente è sempre tormentato da un senso di vuoto. Fugge da un mondo che non capisce. Si rifugia in un arrugginito autobus che ha trasformato in tana, circondato da chincaglierie, oggetti e foto ingiallite del padre morto che gli sorride.
Nel suo nascondiglio tutto è fermo, secondo una staticità asfissiante che reprime ogni slancio di rinnovante cambiamento. La rabbia cova tra le lamiere di un mezzo che, per antitesi rispetto al suo uso, non trasporta più nessuno. Anche l’iguana, l’unico amico silenzioso, si muove con una lentezza che ci riporta ai tempi delle antiche ere geologiche.
Il riferimento alle stelle è frequente in modo esplicito nel film: nomi di astri, distanza tra corpi celesti. E il bus, divorato da sterpaglie, è come una stella fissa: una nostalgica inquietudine attorno alla quale si espande e ruota l’universo di una vita segnata da destini che sembrano inevitabili e senza speranza. I debiti lasciati in eredità dal padre, il duro lavoro nel cantiere che non gli lascia tempo allo studio, una scuola distratta e inerme di fronte ad un ragazzo che si addormenta bocconi sul banco, un nuovo padre padrone che lo vuole iniziare alla fatica del mondo adulto tra rimproveri, botte ed obblighi di manovalanza.
Questo sistema planetario relazionale - emotivo, senza orizzonte, viene però destabilizzato da una enigmatica figura: Ettore. L’anziano insegnante dice di essere stato amico del padre e vuole accendere nell’adolescente una nuova passione per la vita, attraverso il gusto di un sapere esistenziale. Gli fa assaporare la saggezza della domanda, quella che motiva con dirompente forza la ricerca interiore.
Le domande sono così scritte, con pennarello indelebile, su sassi di fiume che sembrano formare il fondamento di un rinnovato percorso.
Ma quando tutto assume un indirizzo positivo, una nuova conoscenza fa esplodere, come un big bang, ogni equilibrio. Il portatore del bene è fonte dell’antico male e chi sembrava amico diventa il peggiore dei nemici da odiare. L’origine della più radicale sofferenza.
Con il cuore rivolto alle stelle, il giovane arriva ad una triste conclusione: “Quando una grande stella muore diventa un buco nero: tutto ingoia e nulla torna più indietro”.
“Se chiudo gli occhi non sono più qui”, tra le dolorose, quanto possibili vicende che illustra, è un film portatore di grandi segni di speranza, differentemente da quanto possa apparire.
La speranza di un sapere che diventa medicina sanante quando entra a contatto con la vita. Un sapere che non è fatto di risposte nozionistiche, ma di interrogativi profondi e motivanti, che ci spingono oltre l’immobilismo di un destino precostituito e demoralizzante.
Ma c’è di più.
Tra le pieghe della narrazione emergono altri due volti della speranza che hanno l’aroma della proposta cristiana più difficile e coraggiosa.
La prima è quella di un male distruttivo che si trasforma in bene rigenerante. Il vecchio Ettore mette tutto se stesso in gioco, accettando il rischio, il rifiuto e l’odio comprensibile di chi sta aiutando, mosso non da sensi di colpa, ma dal desiderio di trasformare il male in bene.
Il secondo passo di speranza lo compie proprio Kiko.
E’ il passo più difficile: quello del perdono. E’ narrato senza parole, con le immagini di una corsa che si ferma sulla soglia di una stanza di ospedale ormai vuota.
L’ultimo sasso che Ettore ha lasciato a Kiko in eredità è bianco, senza domande.
Il giovane lo deposita dolcemente sul greto di un ruscello di acqua limpida. Non lo lancia, né lo getta. Lo rimette al suo posto nel flusso della vita.
Enzo Riccò